
1. Premessa
Nel nostro viaggio di esplorazione partiremo dalle quattro subpersonalità della psicosintesi: il depresso (che in senso lato per noi comprende anche l’orale e il masochista), l’ossessivo, lo schizoide e l’istrionico.
Didatticamente ho sperimentato più volte che è un buon modo per iniziare. Inoltre questo mi permette di ripercorrere le tappe seguite nel mio percorso di formazione e di ricerca.
Le quattro subpersonalità della psicosintesi, in un certo senso, sono come i colori fondamentali: mescolandoli si ottengono tutti gli altri. Così avremo modo di familiarizzarci con un materiale di base non eccessivamente vasto e dispersivo, prima di allargare il discorso.
Di più: nella psicosintesi si ritiene che la subpersonalità depressa sia alla base di tutte le altre. Quindi partiremo proprio da questa.
Nel trattare ciascuna subpersonalità utilizzeremo di volta in volta i contributi più interessanti e utili per noi, provenienti dai diversi modelli di riferimento di PNL umanistica (principalmente, oltre alla psicosintesi, l’analisi transazionale, i modelli cognitivi, la teoria dell’attaccamento, e la corenergetica).
2. La ferita del depresso
La ferita del depresso è costituita da una carenza d’amore. Al depresso è mancata la fondamentale e rassicurante esperienza di accettazione, comprensione, comunione con la madre.
In termini di teoria dell’attaccamento, al depresso è mancata la base sicura, quindi è mancata l’esperienza di essere rassicurato e accolto, in modo caldo, pieno, incondizionato. Può aver avuto una madre fredda, poco attenta, incapace di empatizzare, e quindi può aver sperimentato freddezza e rifiuto, oppure abbandono. Oppure può aver avuto una madre iperprotettiva e possessiva, che lo ha mantenuto debole e incapace di autoaffermarsi.
“In quale modello di attaccamento si colloca allora il depresso?”
Si colloca nel pattern ansioso-ambivalente, insieme, ad esempio, all’ossessivo. Ciò indica che il rifiuto della madre non è stato così precoce e così intenso come quello che dà origine all’attaccamento evitante, da cui sembra si sviluppino altre subpersonalità più gravi, come lo schizoide e il paranoide. L’istrionico e il narcisista si svilupperebbero, invece, dal modello disorganizzato. Occorre però avere molta cautela nel fare queste affermazioni, almeno se ci atteniamo al campo che più ci interessa, che non è quello della patologia conclamata, ma piuttosto quello degli stili di personalità.
“E in termini di corenergetica?”
Il bambino, in conseguenza di questo tipo di attaccamento, è rimasto teso, ansioso, appunto, non in grado di abbandonarsi, rilassarsi, fidarsi. Questo comporta una conseguenza molto seria sul suo modo di respirare: egli non respira a sufficienza, la sua respirazione è superficiale e irregolare. Perché? Perché, essendo in tensione, rimane in azione il suo sistema simpatico, cioè quello connesso all’azione e quindi al dispendio di energia, e non riesce a passare mai completamente all’altro sistema, il parasimpatico, necessario per il recupero dell’energia.
Come è ben spiegato dalla biosistemica (una variante della bioenergetica), anche l’apparato digerente è fortemente rallentato da questo processo. Ne consegue che respirazione e digestione, i due principali sistemi di assunzione di energia, funzionano a basso regime.
“Il bambino quindi non impara a ricaricarsi da solo, come abbiamo visto sopra?”
Esattamente. Il bambino non accolto, impaurito, senza una base sicura dove far ritorno con piena fiducia, vive in stato di perenne allarme, stato che non gli consente la funzione di piena ricarica e di riposo, poiché anche il sonno ne viene disturbato.

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“E l’energia vitale?”
Parte dell’energia vitale (EV) si ripiega su se stessa; implode, anziché fluire ed espandersi. Di fronte alla ferita e al dolore, il bambino rinuncia, si ritira, vuole morire.
“Ma utilizzare il termine “volere” non è eccessivo per un neonato o un bambino molto piccolo?”
Non sto parlando di volontà in senso adulto e cosciente, ma di motivazione, di impulso, o, forse meglio, di quel tipo di energia che guida il comportamento. Anche un’ameba, di fronte al dolore, si ritira. Reich aveva notato che il suo flusso plasmatico forma delle onde che si ritirano dalla periferia al centro. Questo è appunto il percorso dell’energia vitale di fronte al dolore ripetuto: il ritiro, il ripiegamento, fino a cercare di sparire.
“E’ quello che Freud chiamava istinto di morte?”
Sì, però come abbiamo già detto, in psicologia umanistica si ritiene che questo ritiro non sia una forma di istinto, ma la conseguenza di una grave frustrazione.
Quando siamo di fronte ad una subpersonalità depressa, ci dobbiamo aspettare che da qualche parte ci sia questa tendenza a sparire, ritirarsi, morire. Chi ha una subpersonalità depressa di una certa entità, è probabile che abbia avuto, almeno qualche volta, delle idee suicidiarie. In termini di analisi transazionale, egli non ha ricevuto il permesso pieno di esistere. E questo è il fatto più grave.
In ogni caso nel depresso troviamo questa idea della rinuncia, del ritiro dell’energia vitale: egli non riesce ad entusiasmarsi, non riesce a caricarsi, non riesce a tenere in piedi un progetto. Di fronte alle difficoltà, egli tende a collassare. Egli manca dell’altro fondamentale permesso: quello di riuscire e di realizzarsi.
3. Indegnità, autosvalutazione, autocolpevolizzazione
Il depresso non ha stima di sé: si ritiene indegno, inferiore, non meritevole. Il bambino piccolo, quando non riceve, tende ad attribuirsi la colpa: la mamma non mi dà abbastanza perché non lo merito, io non valgo, sono una nullità. Spesso è la mamma stessa che induce questa percezione di sé, non valorizzandolo in alcun modo.
Ricordiamoci che non veniamo al mondo con una salda convinzione del nostro valore. Il modo in cui ci valutiamo, dipende dal modo in cui in primo luogo nostra madre ci ha percepito e ci ha comunicato queste percezioni. Il vero amore si comunica principalmente attraverso l’attenzione, l’ascolto, la comprensione. Attenzione e ascolto profondo consentono – attraverso la sintonizzazione e la sincronizzazione dei comportamenti – la creazione di una relazione madre-bambino armonica, vitale e gioiosa. Una madre disattenta, assente, poco empatica, che tipo di percezione comunica? Tu non sei importante, non vali, non meriti. La relazione madre-bambino è fredda, disarmonica, insoddisfacente per entrambi.
“Si tratta di messaggi espliciti?”
No, si tratta di messaggi non verbali, impliciti nel comportamento. Sono quei messaggi che in analisi transazionale vengono detti ingiunzioni: non esistere, non essere un bambino, non riuscire ecc. Le ingiunzioni non sono espresse a livello verbale e cosciente dalla madre. Esse non sono manifestazioni del genitore e dell’adulto all’interno della madre, ma del bambino ribelle, oppositivo, che vede nel neonato un intruso, un concorrente da eliminare. Di qui l’ingiunzione più terribile di tutte: non esistere.
“Quindi il depresso rinuncia, si ritira, si colpevolizza perché si sente indegno di essere amato, di riuscire, di farsi valere?”
Sì, ha una cronica sensazione di inferiorità. Delle quattro posizioni esistenziali dell’analisi transazionale, egli aderisce alla seconda io NON sono OK, gli altri sono OK.
4. Sé inferiore e maschera
“Abbiamo visto che nel depresso non tutta l’energia vitale si ripiega su se stessa. Come viene incanalata la rimanente energia?”
Una parte dell’energia del core da positiva, espansiva, attrattiva, diventa negativa, distruttiva, ostile: essa forma la struttura del sé inferiore, che si alimenta di odio, rabbia, rancore. Il sé inferiore non dice: è colpa mia. Il sé inferiore dice: ti punisco, ti faccio a pezzi.
E, come abbiamo già visto nell’introduzione, ben presto si forma un’altra struttura che si contrappone al sé inferiore, per paura dell’abbandono, dell’isolamento, dell’ostracismo e quindi della morte: la maschera. La maschera blocca le espressioni del sé inferiore: anziché rabbia, mostra compiacenza, sottomissione, amore.
“Si tratta però di falso amore?”
Il depresso ha imparato che non ha diritto di ricevere per il semplice fatto che esiste. Egli può ricevere solo perché dà delle cose in cambio: affetto, sorriso, premurosità. Egli non ama autenticamente; egli mostra amore per ricevere. Egli “deve” amare per sopravvivere. E talvolta, anche se non riceve o riceve molto poco, continua ad “amare” lo stesso, nell’illusione di poter prima o poi essere ricambiato.
“Magari nell’altra vita?”
Sì, egli è predisposto ad abbracciare ogni sorta di ideologie sacrificali. Ci sono persone depresse che cercano un partner alcolizzato o drogato, e fanno l’impossibile per salvarlo. Questo partner dà loro ben poco in cambio, oltre a rifiuti e bastonate, se non l’illusione di poter prima o poi trasformare la loro situazione esistenziale: passare cioè dall’originario rifiuto all’amore. E’ difficile spiegare altrimenti l’accanimento con cui essi si prodigano a rimettere sulla retta via personaggi destinati volontariamente all’autorovina.

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Ricordo una mia cliente che era sieropositiva. Era stata contagiata dal suo fidanzato, che gli aveva taciuto di esserlo.
“Una sorta di omicidio premeditato!”.
Sì. Questa persona però aveva apparentemente perdonato il fidanzato per la sua “dimenticanza”, e lo seguì e accudì fino alla fine dei suoi giorni, in ospedale. Gli chiesi se provava rabbia nei confronti di quell’uomo, e lei negò. L’unica rabbia che veramente provava nella vita era ancora con sua madre, con la quale aveva un rapporto difficile: donna egoista, dura, prepotente.
“E l’altra rabbia dove era andata a finire?”
Era bloccata nel sé inferiore. Quando utilizzando una tecnica ipnotica chiesi alla sua mente inconscia di farle ottenere il permesso di essere davvero se stessa, in contatto con tutte le sue emozioni, ebbene, la rabbia si risvegliò: ne aveva una montagna! Gliela feci scaricare più volte, sempre in stato di trance, e chiesi alla mente inconscia di farle ottenere il permesso di autotutelarsi e di essere assertiva, in modo da non dover accumulare più. La aiutai così a creare, all’interno del suo nuovo governo, il ministero della difesa, che prima era del tutto assente.
“Quindi in precedenza i suoi confini potevano essere invasi impunemente?”
Sì, nel senso che il suo governo non prendeva alcuna contromisura. Era come se il suo esercito non esistesse. Questo governo non reagiva alle invasioni e alle prepotenze perché riteneva di non averne diritto. O meglio, riteneva conveniente mantenere comunque buone relazioni internazionali, in ogni situazione. Era come se dietro ci fosse un’immane colpa da espiare.
La convinzione di fondo era: se le persone mi prevaricano, è colpa mia, me lo merito. Se fossi diversa, questo non accadrebbe.
“Che cosa accadde quando il suo governo cambiò politica?”
Iniziò a comportarsi come una persona normale: nelle situazioni in cui prima era abituata a subire e ad accumulare, cominciò a mostrare i denti in modo sano. Riacquistò cioè la sua naturale aggressività, intesa come forza vitale positiva, al servizio della persona, quella che gli psicologi chiamano “assertività”.
Di fatto, la forza vitale, come energia di espansione e di amore, se viene fermata, ostacolata, si trasforma momentaneamente in energia aggressiva. Questo consente alla persona di sopravvivere e farsi valere, superando gli ostacoli, o quantomeno di provarci, ritirandosi solo se gli ostacoli sono troppo grandi.
“Il ritirarsi di fronte a un pericolo è una cosa sana!”
Esattamente. Il ritiro di fronte ad un pericolo eccessivo salvaguarda la sopravvivenza, e nel contempo non crea alcun danno all’organismo. Passato il pericolo, l’organismo riprende la sua forza positiva ed espansiva. La fuga o il blocco è solo temporaneo. Poi l’energia vitale riprende a circolare ed ad erotizzare tutto l’organismo, che impara a vivere guidato dal piacere.
Ma quando il bambino piccolo, di fronte all’ostacolo insormontabile della mancanza di amore, sceglie la via del ritiro, questa via dolorosa si inscrive in modo permanente nella sua fisiologia. E’ un vero e proprio imprinting. Egli nel futuro tenderà a rinunciare e a cedere, lasciandosi aperta solo la via indiretta: attirarsi le grazie e compiacere per non essere rifiutato e distrutto.
“L’identificazione con l’aggressore?”
Sì, è un modo per sopravvivere: dar ragione a chi ci dà addosso. Così non dobbiamo reagire e farci uccidere. Ma questa non è una via che si accompagna al piacere e all’eros, bensì alla sofferenza e al dolore, che diventano gli usuali compagni del depresso.
5. Sé inferiore e piacere
“Hai detto però che solo una parte dell’energia vitale segue questa via”.
Sì, altrimenti non ci sarebbe più vita. Dove c’è solo rinuncia, lì c’è solo la morte. Il sé inferiore nel depresso non rinuncia affatto. Non vede l’ora di sfuggire al controllo della maschera al governo, che lo tiene compresso, e quindi di potersi sfogare e vendicare.
Di tanto in tanto riesce in questo intento. In che modo? Non in modo diretto, perché il controllo è troppo forte, ma in modo indiretto. Sono gli equivalenti aggressivi: il depresso fa del male agli altri, ma sempre in modo apparentemente involontario e inintenzionale, così da non dover subire ritorsioni.
Uno dei modi in cui fa del male è lamentandosi e facendo la vittima. Se riesce a scegliere la persona giusta che sta al gioco, allora egli può diventare un vero torturatore. In tal caso il governo non ha nulla da opporre, in quanto non si prevedono conseguenze negative. Lamentandosi e incatenando l’altro, gli ruba la sua energia: alla fine la sua vittima è stremata, mentre lui sta molto meglio. Perché? Perché ha provato molto piacere.
“Ma quale piacere?”
Il piacere di esprimere almeno in parte il sé inferiore, senza doverne subire le conseguenze, ma anzi vedendo che l’altro ne esce più depresso di lui.
“Si tratta di una punizione?”
Sì. Punire l’altro, senza farsene accorgere, diventa un’arte raffinata per il depresso. Così raffinata e piacevole che alla lunga può diventare il maggior ostacolo alla sua guarigione.
“Perché?”
Perché ognuno di noi ha bisogno di provare piacere per vivere. E per il depresso punire diventa il suo principale modo di provare piacere. Si può ben capire che non sia disposto a rinunciarvi facilmente.
E indovina chi il depresso sogna di punire di più?
“Sua madre o suo padre!”
Certo. E un eccellente modo di farlo è di non realizzarsi nella vita, rimanere dipendente, ammalarsi o semplicemente essere infelice. in tal modo inconsciamente egli pensa di vendicarsi dei suoi genitori: vedete come mi avete ridotto? Tutta colpa vostra! Non ve lo perdonerò mai!
“E questo a volte capita anche nei confronti del partner!”
Non occorre essere esperti di psicoanalisi per sapere che il partner è il miglior bersaglio del transfert, cioè di quelle reazioni e sentimenti provati originariamente nei confronti dei genitori. Così, punendo il partner, simbolicamente il depresso pareggia i conti e punisce suo padre o sua madre.
“Si tratta di una reazione autodistruttiva!”
Considerata a livello adulto e sano, sì. Ma è diverso se la si considera dal punto di vista del sé inferiore: ingabbiato, imprigionato, sofferente, furibondo, non sogna che la vendetta, anche perché non vede altro. E la vendetta, lo ripeto, sotto un certo aspetto è tutt’altro che distruttiva, in quanto procura grande piacere. L’alternativa che il sé inferiore vede non è la liberazione, ma la continua rassegnazione e sottomissione, cioè la cosa che odia di più.
“Perché il governo asseconda questo piano del sé inferiore?”
Perché non ostacola affatto la sua politica. Apparentemente non crea alcun pericolo di quelli che egli paventa di più: essere abbandonato, rifiutato. I genitori non possono fuggire, il partner è scelto in modo da stare a questo gioco: non c’è rischio.
Inoltre il governo trae un suo personale vantaggio: parte dell’energia del sé inferiore si scarica, così egli dovrà impiegare meno forza per controllarlo.
6. Strategie di controllo sul sé inferiore
“Il controllo del sé inferiore è quindi una preoccupazione costante del governo?”
Sì. Perché se il sé inferiore gli sfugge di mano, tutta la sua politica crolla miseramente. Le persone diranno: “Ah, ma allora non sei buono come sembri, non sei una vittima! Sei proprio un bastardo!” La falsità del gioco verrebbe scoperta, la compiacenza non potrebbe più funzionare.
“In che modo specificamente il governo controlla il sé inferiore?”
Lo abbiamo già accennato. I modi più comuni sono:
1. la propaganda politica dell’indegnità e della colpa. Il governo, attraverso il dialogo interno, fa una massiccia propaganda di indegnità, autosvalutazione e autocolpevolizzazione, in modo da convincere il maggior numero di forze interne a parteggiare per la sua politica della non aggressività e della sottomissione;
2. l’autopunizione. Dare il via libera al sé inferiore di colpire e di aggredire, spostando però il bersaglio dall’esterno all’interno: “Il nemico è dentro”, dice il governo, “colpisci senza pietà!”;
3. gli equivalenti aggressivi. Il governo autorizza il sé inferiore a colpire, purché ciò avvenga in modo subdolo e indiretto. Il sé inferiore impara così a sfogarsi, provando un grande piacere, punendo gli altri nei modi più perversi e creativi, sapendo di avere dalla sua il governo. Unico limite: farlo in modo da non apparire responsabile.
Se tutte queste strategie non sono sufficienti, e il governo rischia di perdere il controllo, può ancora giocare due carte:
4. stringere ulteriormente i freni, e ricorrere alle varie forme di ossessioni per dissipare l’energia in eccesso del sé inferiore. Come è noto, le idee ossessive costituiscono un eccellente espediente per perdere energia senza fare assolutamente nulla!
5. se la via dell’ossessività non basta, può avventurarsi oltre su questa strada, e stimolare il sé inferiore a cercare indizi di tradimenti, cospirazioni, o altre forme di male azioni perpetuate ai suoi danni. In questo modo potrà sfogare la sua rabbia, ma avrà una ragione “morale” e oggettiva per farlo. Affinché possa seguire questa strada, però, ci deve essere anche la collaborazione di una subpersonalità paranoide, che funga almeno da consulente! Ne riparleremo quindi a suo tempo.
7. Il core, la parte sana e la risorsa antidoto
“Tornando all’origine, dicevamo che solo una parte dell’energia vitale del core viene assorbita dalla ferita, dal sé inferiore e dalla maschera, giusto?”
Sì.

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“Ciò significa che una parte rimane energia di espansione ed amore?”
Sì. Questa non si perde mai completamente. Anche quando il depresso è nella maschera, e quindi compiace, l’affetto o l’amore che mostra non è tutto falso. Una parte della maschera è collegata con il core. In altri termini, l’originaria energia di amore continua il suo percorso evolutivo, talvolta in modo più sotterraneo e nascosto, talvolta in modo più palese, talvolta come componente della maschera. In ogni caso questa energia non va perduta.
“In che modo questa energia positiva si manifesta?”
Il depresso sviluppa una forte sensibilità ed empatia ai problemi degli altri, che non è solo frutto di intenzione profittatrice: comprendere per poter ottenere di più. Una parte è autentica. Il depresso davvero si commuove per le disgrazie altrui, e spesso si dà da fare per lenirle.
“Quindi, ad esempio, chi sceglie una professione di aiuto, sulla spinta di una subpersonalità depressa, non significa che è falso?”
Significa solo che una parte ha scelto di aiutare gli altri come modo di aiutare se stesso. E questo ha una duplice valenza: una adulta e sana, l’altra meno sana. Meno sano è aiutare gli altri pensando di ricevere in cambio qualcosa come affetto, riconoscenza, amore. Perché non sana? Perché non è realistica (chi viene aiutato non è detto che sia riconoscente, e il depresso ci rimane regolarmente male) e perché si basa su un’autosvalutazione: cioè sulla convinzione di non poter ricevere altrimenti. Non solo: se si aiuta nella prospettiva di ricevere in cambio qualcosa, che non sia il corrispettivo di una prestazione professionale, ci si mette nella peggiore condizione per aiutare realmente, cioè ci si mette nella condizione di essere ricattati e di perdere ogni potere.
“E la parte sana?”
La parte sana è questa: aiutare gli altri aiuta anche se stessi, perché si deve per forza decentrare l’attenzione dai propri bisogni per concentrarsi su coloro che chiedono aiuto. E questo fa molto bene alla salute psichica, dato che la peggior malattia è la chiusura egocentrica.
“La parte sana contiene le risorse più importanti del depresso?”
Sì, contiene quella che in PNL umanistica chiamiamo “risorsa antidoto”. Antidoto al veleno da cui la subpersonalità ha tratto origine. Se il veleno è la mancanza di cura e di amore, l’antidoto quale sarà?
“L’amore e la cura di sé!”
Esattamente. Il depresso non potrà mai ricevere dall’esterno ciò che non ha ricevuto da bambino. Nessun bisogno infantile può mai essere soddisfatto in un adulto da un altro adulto. C’è un’unica eccezione a questo: l’adulto stesso può prendersi carico del bambino ferito al suo interno. E l’adulto del depresso può svolgere particolarmente bene questo compito, in quanto ha sviluppato nella vita proprio quelle doti di empatia e sensibilità che più sono necessarie. Naturalmente occorre che prima l’adulto sia ben decontaminato, altrimenti ci troveremmo nella condizione in cui un bambino sofferente prova ad aiutarne un altro. Impossibile! Anche perché la verità è che non lo vuol fare: il bambino non vuole aiutare, vuole ricevere!
“Quale è il test per verificare se il depresso può iniziare a prendersi cura di sé, e a ricaricarsi da solo?”
Il punto di inizio è la compassione che come adulto prova non più nei confronti di se stesso, ma nei confronti del bambino ferito, dal quale egli è in grado ora di dissociarsi o disidentificarsi. Prima di tale momento questo procedimento non può funzionare, e occorre ancora lavorare alla decontaminazione dell’io.
8. Il depresso e il rapporto di coppia
“Un’idea comune che hanno le persone depresse è che solo l’amore di un altro potrebbe salvarli. Ma questo non funziona praticamente mai. Perché specificamente?”
Nessuno è in grado di colmare i bisogni infantili che albergano in un adulto. Il bambino, infatti, ha bisogno di un amore così esclusivo e totale che solo una madre, nelle condizioni migliori, è in grado di dare.
Se poi andiamo in concreto a vedere come vanno le cose, troviamo regolarmente alcune situazioni tipiche ripetitive nella vita dei depressi.
La prima è quella di innamorarsi di persone rifiutanti, difficili da conquistare. Tipico è il rapporto tra il depresso e lo schizoide. Lo schizoide è autonomo, autosufficiente, si fida di sé. Queste qualità sono proprio quelle che al depresso mancano. Quindi il depresso lo mette su un piedistallo: “Lui vale, io no. Se riesco a stare insieme a lui, sono salvo!”
E qui scatta la trappola. Infatti il depresso spera che lo schizoide, conquistato dal suo amore, cambi, e diventi affettuoso e premuroso. In un primo periodo prova un gran sollievo e godimento solo a stargli accanto: in fondo ha ottenuto l’attenzione di una persona di valore, ciò significa che anche lui vale. Parte del piacere di questa relazione deriva proprio dalle carezze che all’inizio il depresso riceve in questo modo alla sua autostima.
Ma poi? Poi lo schizoide non cambia affatto: continua ad essere duro, spesso chiuso, inarrivabile. Inoltre inizia a reagire e ad irritarsi perché si sente soffocare dalle eccessive richieste del depresso. Così il depresso, non ricevendo amore, ma rifiuto, riprende a soffrire più di prima. Sperando di risolvere il suo problema, egli ci è ricascato in pieno: la sua ferita non solo non guarisce, ma si aggrava.
Un’altra situazione tipica è quella del depresso che, ancora una volta, cerca di conquistare una persona difficile o inarrivabile. Quando quella finalmente cede alle sue richieste, egli prova una grandissima gioia. Ma non dura molto. Dopo un po’ si accorge che il partner non è così meraviglioso come gli appariva prima. In fondo, se ha accettato il rapporto, significa che anche lui vale ben poco.
“In sostanza, egli distrugge l’immagine dell’altro nel momento in cui lo sente come parte di sé?”
Sì, trasferisce all’altro, che accetta la relazione con lui, il disprezzo che prova per se stesso.
“Quindi le relazioni del depresso sono destinate a durare poco?”
Non necessariamente. Può sempre trovare una persona che lo tenga sulla corda quel tanto che è sufficiente a non farsi disprezzare, ma non troppo da farlo ripiombare nella disperazione.
“Però questo non è vero amore!”
Ogni struttura difensiva, ogni subpersonalità, allontanando la persona dal proprio centro, dal proprio core, in misura maggiore o minore impedisce il contatto con la sua fonte primaria dell’amore, che è interna. Staccato questo collegamento, le strategie rivolte all’esterno non possono avere successo. Ma le persone non sono monoliti, sono dei flussi energetici che evolvono attraverso gli errori e l’esperienza. Per cui la speranza, anche nei casi gravi, non va mai perduta.

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Uno dei compiti di un buon terapeuta è proprio quello di vedere la bellezza che c’è dentro la persona, vedere le sue risorse già prima che si manifestino. Questo, a livello subliminale ed inconscio, aiuta moltissimo la persona a cambiare immagine di sé. Durante una terapia, o una relazione significativa di aiuto, la persona interiorizza la figura del terapeuta, e quindi si porta dentro, sia pure a livello non consapevole, anche l’immagine che il terapeuta ha di lei.
Per questo è così importante che i terapeuti, gli insegnanti, i genitori, tutti coloro che vogliono promuovere la crescita di qualcuno, sviluppino questa essenziale capacità di visione.
9. Depresso e tipologia
“Che incidenza può avere la tipologia del bambino nello sviluppare una subpersonalità depressa?”
L’origine di questa subpersonalità è una carenza d’amore. Ci dobbiamo aspettare quindi che alcune tipologie siano più sensibili a questo tipo di ferita rispetto ad altre. In particolare, ad esempio, si può pensare che il tipo amore della psicosintesi, proprio in quanto focalizza prevalentemente l’attenzione su questo aspetto, sia massimamente vulnerabile ai rifiuti e alla carenza d’amore.
“Ma chiunque è vulnerabile a una mancanza d’amore!”
Certo, ma in misura diversa. Un tipo attivo-pratico o un tipo volontà, ad esempio, proprio per il modo in cui è predisposto a dirigere l’attenzione, ha più capacità di riprendersi. Per questi tipi, perseguire un’attività o un progetto è qualcosa di primario, che non necessita la previa soddisfazione del lato affettivo, a differenza del tipo amore. Di fronte alla frustrazione d’amore, il tipo amore collassa; i tipi volontà e attivo-pratico riescono almeno in parte a continuare quelle azioni e progetti, dai quali poi traggono soddisfazione ed energia. In tal modo la loro autostima e il loro senso di identità non ne vengono minati, a differenza di ciò che accade al tipo amore.
Lo stesso dicasi per il feeler, nei tipi junghiani. Il feeler cerca intorno a sé armonia, sintonia, reciproca comprensione, diversamente dal thinker, il quale è più identificato sul livello astratto, di ciò che è giusto o sbagliato, vero o falso in una data situazione. Il feeler, in sostanza, è predisposto ad un maggior contatto con i sentimenti, in particolare con quelli di armonia e amore, il cui mantenimento o raggiungimento costituiscono per lui un obiettivo primario.
“Sembra però piuttosto difficile o impossibile stabilire i confini tra tipologia e subpersonalità. Il ragionamento si potrebbe infatti ribaltare: si diventa tipi amore o feeler perché si è sofferto una carenza d’amore, cioè perché nel fondo si è depressi!”

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Certo, la questione è tuttora aperta alle due differenti visioni. Anche per questo nella psicologia evolutiva fino ad oggi ci si è occupati così poco di tipologia. Ma, come dicevo, questo probabilmente è un grave errore. Pensarla in termini di tipologia è infatti assai più vantaggioso, sul piano pratico: evidenzia la salute, non la patologia, e riduce i sensi di colpa. Una madre che ha un’intesa più difficile con un figlio rispetto ad un altro può finalmente dirsi che ciò non è dovuto a cattiveria o malattia, ma a differenze di compatibilità tra strutture entrambe sane. Questo può essere un punto di partenza più adatto per cercare la via di una migliore sintonizzazione reciproca.
“Stai dicendo che fa parte della mentalità PNL costruire i problemi in modo che contengano vie di uscita, o, in altre parole, costruire le situazioni in termini di risorse?”
L’orientamento verso la soluzione è parte essenziale della mentalità PNL. Noi sappiamo oggi quanta sofferenza si può sviluppare in una coppia per difficoltà attinenti alle tipologie dei due membri. Sappiamo anche che questo tipo di difficoltà è assai più facilmente superabile se visto in termini di tipologie piuttosto che di disturbi psicologici, se non altro per la ragione che nessuno deve ammettere di avere una parte malata prima di guarire. Il che in genere provoca non piccole resistenze.
“Mi fai un esempio?”
Il lavoro sulle tipologie in ambito aziendale produce rapidi risultati in breve tempo: le persone coinvolte in un problema relazionale comprendono facilmente quale è la loro parte, in che modo contribuiscono a creare il problema, e quindi sono disposte a cambiare ottica. Il loro contributo al problema, infatti, non viene collegato a nessuna patologia, ma ad una loro risorsa: il loro modo di essere, la loro identità. Un tipo volontà che si scontra con un tipo amore non è patologico. Neppure il tipo amore è patologico. Volontà e amore sono entrambe eccellenti risorse: la prima focalizza di più gli obiettivi, la seconda focalizza di più le relazioni. Messe insieme, queste due risorse possono scatenare problemi apparentemente insolubili, specie se inizia il gioco della colpevolizzazione reciproca. Se ne esce solo grazie al reciproco riconoscimento del valore essenziale di ciascuna parte. In questo modo le persone, nel processo di soluzione, ottengono carezze alla loro autostima e al loro senso di identità. E’ abbastanza ovvio, quindi, che collaborino più facilmente.
“Questo è il presupposto della negoziazione in PNL!”
Sì. La negoziazione presuppone un modo di pensare in termini di risorse, anziché di problemi. L’attenzione alle tipologie appartiene a questo tipo di pensiero, per sua natura idoneo a facilitare la creazione di spazi-soluzione.
Una madre che trova difficoltà nell’intesa con il suo bambino, può cominciare a pensare a quali risorse suo figlio sta sviluppando che lei non possiede. Proprio queste risorse, questo nucleo di identità così diverso da lei, sarà la bellezza e la luce di suo figlio nel domani. Vengono in mente le parole di Kahlil Gibran:
I vostri figli non sono i vostri figli.
Sono i figli e le figlie dell’ardore che la Vita ha per se stessa.
Essi vengono attraverso di voi, ma non da voi.
E benché vivano con voi non vi appartengono.
Potete dar loro il vostro amore ma non i vostri pensieri,
Poiché essi hanno i loro pensieri.
Potete dar ricetto ai loro corpi ma non alle loro anime,
poiché le loro anime dimorano nella casa del domani,
che neppure in sogno vi è concesso di visitare.
Potete sforzarvi di essere simili a loro, ma non cercate di rendere essi simili a voi.
Poiché la vita non va mai indietro né indugia con l’ieri.
Questa visione toglie tensione, facilita l’empatia e la comprensione profonda della madre, cioè facilita quell’energia di amore così necessaria, comunque, allo sviluppo del bambino.
L’amore, lo abbiamo detto più volte, è in primo luogo comprensione e rispetto della vera e autentica natura dell’altro. L’amore veicola i permessi più importanti: di esistere, di essere veramente se stessi, di sentire ed esprimere le proprie vere emozioni, di crescere e svilupparsi in armonia con la propria vera identità, e quindi il permesso di realizzarsi e di riuscire. Nonché, naturalmente, come conseguenza di tutto questo, il permesso di godere e provare piacere.
L’amore crea un contesto in cui il bambino impara ad esplorare il mondo esterno, e il mondo interno, guidato dalla curiosità e dal piacere, e quindi in armonia con la propria vera volontà, e non dalle doverizzazioni, dalle spinte e dalle paure, su cui si fonda la volontà esterna o condizionata.
“Di fronte ad un atteggiamento di apertura e attenzione all’altro, come si fa a dire se si tratta di un atteggiamento autentico, cioè espressione della tipologia feeler, ad esempio, o non piuttosto di compiacenza, cioè dell’espressione di una subpersonalità depressa?”
La persona compiacente al suo interno cova facilmente rabbia e rancore. Egli guarda sempre se i conti tornano o non tornano: sto dando troppo, rispetto a quello che ricevo? La tipologia feeler, viceversa, nel fare questo esprime se stessa, cioè prova gioia e soddisfazione nel farlo. Nel favorire la sintonia, nell’andare incontro, è pienamente aperta e spontanea, perché realizza se stessa. Se nonostante ciò non riesce a produrre armonia nel contesto intorno a sé, in ogni caso non si pente: sa di aver fatto il possibile. Non cova rabbia, ma solo dispiacere. Il che è molto diverso.
Ora, nel depresso, secondo la nostra idea, le reazioni ci sono entrambe. Il depresso è in primo luogo un feeler. Per lui l’amore è un valore importante in sé. Ma come subpersonalità depressa, questa reazione può essere coperta dal meccanismo del bisogno carenziale e della compiacenza: dò per ricevere. Questo non fa sparire l’altra reazione: semplicemente la rende meno intensa o la copre.
“Quindi se il depresso dice di amare non è falso?”
Ad un livello lo è, all’altro no. Dentro il depresso c’è già la parte sana che si sta esprimendo, sia pure in modo ancora debole. Di qui si comprende l’importanza, in una relazione di aiuto, che il terapeuta o il facilitatore sappiano vedere la reazione autentica e sana, dietro alla manifestazione di quella più evidente.
“Cioè sappiano vedere il core?”
Esattamente. Ciò che viene visto dal terapeuta, prima o poi viene visto anche dal cliente. Vedere dentro di sé la parte sana è un grosso aiuto alla crescita: parte sana significa identità, confini, sicurezza, forza, piacere. Significa anche l’insieme di tutte le proprie qualità essenziali e risorse che sono andate perdute nel processo di condizionamento. Il depresso ha massimamente bisogno di tale riconoscimento come antidoto alla dipendenza, al senso di indegnità e alla rinuncia.
Se questa parte non viene vista, e al depresso si fa notare solo la sua compiacenza, non gli si dà alcun aiuto: in primo luogo perché si tratta di un “fallimento empatico”; in secondo luogo perché il depresso viene a ricevere così un’ulteriore conferma della sua indegnità e colpa.
“Naturalmente è importante non vedere solo la parte sana, ma vedere e confrontare anche la sua parte manipolatrice?”
Certo. Altrimenti si cadrebbe nel fallimento empatico opposto. E questo tipo di errore è spesso frutto proprio della subpersonalità depressa del terapeuta.
In PNL umanistica distinguiamo due tipi di feedback: materno e paterno. Il feedback materno deve contenere il massimo di accettazione, deve essere empatico, accogliente, rigenerante, nutritivo. Si tratta essenzialmente di una carezza positiva.
Il feedback paterno ha invece carattere di confrontazione: il suo scopo è di porre il cliente di fronte ai dati di realtà, intesa come realtà socialmente condivisa.
Modulare i due tipi di feedback in base alle esigenze evolutive del cliente è un’arte difficile, ma essenziale affinché la relazione diventi realmente produttiva.
10. Depressione e rinuncia. Il processo di morte e rinascita
Ogni processo di evoluzione personale, come ogni psicoterapia, richiede la rinuncia a vecchie parti di sé. Una prima rinuncia, almeno nella psicoterapia, è quella dell’immagine di sapersela cavare sempre da soli. Contro questa rinuncia si eleva una prima difesa aspecifica, di carattere narcisistico: io posso, sono forte, non ho limiti, non ho bisogno di nessuno!
Rinunciare, lasciar andare comporta sempre un sentimento di depressione. La crescita quindi si accompagna naturalmente alla depressione. Questo è fisiologico ed è sano.
E’ patologico invece quando qualcosa interferisce nel processo del rinunciare e lasciar andare: allora la depressione si prolunga e non può essere risolta senza il completamento del processo.
I bambini abbandonati, o privati di oggetti prima del tempo, sviluppano difficoltà da adulti a lasciar andare: per loro è troppo doloroso, in quanto sperimentano il dolore del passato. Essi tendono a mantenere le cose e a rifiutare il dolore collegato alla rinuncia o alla perdita. In termini buddisti, il loro attaccamento, di per sé naturale, è stato rinforzato dalle condizioni ambientali.
C’è un tipo di depressione nevrotica che trova la sua radice nel danno alla capacità individuale di base di lasciar andare, di rinunciare a qualsiasi cosa (giving-up neurosis).
Le persone spesso arrivano in terapia per una depressione non risolta. Compito della terapia è aiutare la persona a lasciar andare, a completare il processo che era già iniziato prima della terapia.
I pazienti spesso non sanno questo: in realtà essi cercano solo sollievo dai sintomi della depressione, senza lasciar andare i loro attaccamenti. Però la saggezza dell’inconscio sa che le cose non si possono più mantenere. A livello inconscio la rinuncia è già iniziata, e la depressione è il segnale di questa rinuncia. L’inconscio è un passo più avanti rispetto alla coscienza: questo è un principio base del funzionamento mentale.
Perché allora il lasciar andare è tanto doloroso? Perché esso è un simbolo di qualcosa che finisce, che non tornerà mai più: è un simbolo della morte. Ma alla morte, se il processo è completato, segue la rinascita e la gioia. Questo però richiede un atto di fiducia e coraggio. Se invece non si completa il processo, si rimane bloccati nella fase depressiva.
Ecco un elenco di cose che durante la vita occorre lasciar andare:
— lo stato infantile, ove non esistono richieste
— la fantasia di onnipotenza
— il desiderio del possesso totale di un genitore
— la dipendenza dell’infanzia
— le immagini distorte dei genitori
— l’onnipotenzialità dell’adolescenza
— la libertà della mancanza di impegno
— l’agilità della gioventù
— l’attrattiva sessuale e/o la forza della gioventù
— la fantasia di immortalità
— l’autorità sui propri figli
— varie forme di potere temporale
— la piena salute fisica
— infine il sé e la vita stessa

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Nella nostra cultura, in cui il sé è considerato sacro, la morte appare il peggiore dei mali. La morte, come rinuncia e abbandono del sé, appare un indicibile insulto, il più grave inferto dal destino crudele che sovrasta l’umana natura. Ma la realtà, come insegnano i saggi, è esattamente l’opposto. E’ nel rinunciare al sé che l’uomo può sperimentare la più estatica e durevole gioia della vita. Ed è la morte che dà significato a tutta la vita. Questo segreto è la saggezza centrale di ogni religione.
La rinuncia al sé è un processo graduale, correlato al fenomeno dell’amore, che ci porta attraverso una serie di passi o gradini.
Una forma di rinuncia al sé di particolare valore per la crescita è la messa tra parentesi del sé per acquisire nuove conoscenze, per fare spazio a nuove esperienze ed informazioni all’interno del sé. Per percepire il nuovo, occorre mettere tra parentesi i propri pregiudizi, basati sulla passata esperienza, altrimenti non si fa che vedere sempre una ripetizione del già visto. Per ogni cosa a cui si rinuncia e che si lascia andare, si sperimenta dolore, ma la morte del vecchio è la nascita del nuovo. Per acquisire una nuova visione, idea, cognizione, quella vecchia deve morire. Così la vita è una serie di morti e rinascite.
11. Il terapeuta o il facilitatore depresso
Secondo la psicosintesi, un terapeuta con tratti depressivi (cioè con una subpersonalità depressa di una certa entità, non ancora sufficientemente sciolta) va incontro ad alcune difficoltà nella gestione delle sedute.
In primo luogo, egli tende ad essere passivo, fidando che le cose importanti succederanno da sole e in seguito. Tende a cedere la conduzione della terapia al cliente. Tende a risparmiarlo, a viziarlo, senza chiedergli nulla, senza mai confrontarlo. Egli utilizza solo feedback di tipo materno, indubbiamente necessari in una prima fase, ma insufficienti nel prosieguo del lavoro.
Si addossa ruoli non necessari o risponde a richieste eccessive.
Tende a prolungare le sedute, si ferma a parlare dopo, quasi nel timore di perderlo per non aver fatto abbastanza. Ha difficoltà a farsi pagare, riduce l’onorario.
Naturalmente, in conseguenza di questo atteggiamento, egli non può non provare nel fondo prima o poi sentimenti di rabbia e impotenza, diventando così egli stesso incongruo. In questo modo la terapia non può funzionare, in quanto, in termini di corenergetica, il terapeuta è nella maschera. Dalla maschera non si può far terapia. La terapia ha bisogno di amore, ma non disgiunto dalla verità. Il terapeuta compiacente fornisce calore e comprensione, ma fugge anch’egli dalla verità, per paura di essere rifiutato.
“In un certo senso, però, il terapeuta depresso fornisce una base sicura al cliente: lo protegge, cerca di aiutarlo in tutti i modi, gli dà calore”.
Sì, ma gli impedisce nel contempo di crescere. Ad esempio, essendo troppo “buono”, rende difficile al cliente esprimere la propria aggressività, e quindi contattare il sé inferiore. Ma senza passare dal sé inferiore, non c’è chance di uscire davvero alla luce.
Finora abbiamo parlato del depresso in generale. In realtà ci sono alcune importanti distinzioni da fare. E quindi potremo scendere più nello specifico.
“Ora hai parlato del terapeuta depresso. Hai anche accennato a tattiche e strategie che sono tipiche della terapia. In che modo questo discorso può ritenersi pertinente ad un corso di formazione come la PNL?”
I territori della terapia, delle relazioni di aiuto, dell’autoaiuto, della formazione e anche dell’educazione si sovrappongono almeno in parte. Oggi disponiamo di sempre maggiori prove che alcuni strumenti, una volta riservati ai terapeuti specialisti, sono in realtà apprendibili anche dalle persone comuni, come i genitori, gli insegnanti, o i manager, che possono quindi avvalersene proficuamente nelle loro relazioni con i figli, gli allievi o i dipendenti
12. Sintesi
Ecco uno schema della subpersonalità depressa:
Core: tipo amore o feeler
Ferita: carenza di amore, abbandono, senso di solitudine.
Emozioni fondamentali = tristezza, disperazione. Questi sono sentimenti reali, autentici, profondi, in relazione diretta con l’esperienza del dolore. A questi sentimenti si aggiunge il senso di indegnità, colpa, inferiorità (“non ricevo amore perché non lo merito”).
Posizione esistenziale = io no ok, gli altri ok.
L’energia vitale, anziché espandersi, si ripiega su se stessa. Quindi, la rinuncia prende il posto della normale aggressività ed autoaffermazione.
In breve:
— no permesso di esistere
— no permesso di essere se stesso, autenticamente
— no permesso di provare, esprimere le proprie vere emozioni
— no permesso di crescere, riuscire e realizzarsi in armonia con la propria vera identità
— no permesso di gioire e provare piacere
Sé inferiore: rabbia, ostilità, rancore in conseguenza del rifiuto; desiderio di punire, vendicarsi, colpire.
Maschera: compiacere per ottenere amore, fare anche per gli altri, assumersi pesi più del necessario. Si abitua, fin dalla primissima infanzia, a farsi amare ed accettare per ciò che fa e per come soddisfa le aspettative dell’ambiente (compiace), non per ciò che è. Si abitua ad assecondare, dipendere, sottomettersi. Si abitua a non esprimere i suoi desideri e a bloccare l’aggressività del sé inferiore. Si abitua a sorridere mentre dentro è arrabbiato o triste. Si fa andare bene le cose.
Governo: si identifica con la maschera, di cui sposa la filosofia rinunciataria e sottomessa. Il suo obiettivo politico è ottenere carezze dagli altri e farsi accettare e amare da tutti. Il metaobiettivo è ricaricarsi di energia, superare il senso di inferiorità-indegnità, riacquistare stima di sé. Cioè riconnettersi con la propria vera identità. E quindi, alla fine, poter essere se stesso. Il suo problema pratico è come controllare la rabbia dell’opposizione costituita dal sé inferiore, che minaccia questo progetto politico.
I meccanismi più comuni di controllo sono:
— adesione ad un’ideologia sacrificale
— autocolpevolizzazione, autopropaganda di indegnità
— autoaggressività (autopunizione)
— equivalenti aggressivi (punizione indiretta degli altri)
— ossessioni (in collaborazione con la subpersonalità ossessiva)
— sensi di persecuzione e aggressività reattiva (in collaborazione con la subpersonalità paranoide. Gioco: “ti ho beccato figlio di puttana” (Berne, 1964))
Il suo problema vero, in realtà, è che questo progetto non può funzionare, in quanto contiene una contraddizione in termini, una serie di doppi legami autoimposti: diventare sovrano attraverso la sottomissione, indipendente attraverso la dipendenza, autoaffermarsi attraverso la rinuncia, provare piacere compiacendo gli altri, ottenere amore disprezzandosi.
Strategie di governo più comuni:
N. 1 = compiacere per farsi amare, dipendere da qualcuno (trascurando i propri bisogni/desideri di farsi valere, autoaffermarsi, realizzarsi, competere sanamente, ecc.). In questo sforzo di iperadattamento (passività) si impedisce di essere se stesso, di manifestare ciò che sente e di ottenere realmente la soddisfazione dei suoi bisogni di intimità e di contatto;

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N. 2. = farsi del male, punirsi, lamentarsi per ottenere attenzione e affetto (questa decisione può essere condivisa dall’opposizione, visto che serve anche a punire gli altri)
N. 3. = dedicarsi agli altri che soffrono, che sono in difficoltà (questa decisione è spesso sostenuta dall’adesione a un ideologia sacrificale)
— o identificandosi in loro: curando gli altri, in realtà sta curando le proprie ferite, e può farlo senza tema di scontentare nessuno e quindi di perdere l’affetto degli altri
— e/o far da salvatore: questo serve come riparazione al suo senso di colpa e indegnità: se salva qualcuno allora significa che vale. Ma questo gioco ovviamente non può funzionare a lungo: ponendosi come salvatore nei confronti della persona presunta vittima, questa si sente svalutata nelle sue risorse, e prima o poi si ribella, diventando così persecutore (triangolo drammatico di Karpman, 1968). In questo modo il depresso ottiene un rinforzo del suo senso di indegnità e quindi un rinforzo del suo copione.
Modalità ricorrente:
= dialogo interno negativo e dominante, alimentato da un genitore interno con forti aspettative e con pretese di dover essere perfetti.
Pur sforzandosi, egli non riesce mai a soddisfare richieste così elevate, non ce la fa, e sperimenta questo come fallimento e come ulteriore prova della sua inadeguatezza. Ogni momento depressivo rappresenta una caduta da ciò che il depresso pensa di dover essere o di dover fare. Egli non ha un realistico senso di sé, e oscilla tra forti aspettative interne e deludenti esperienze di impotenza.
Copione
— convinzioni: io non sono OK, gli altri sì; sono indegno d’amore; sono inferiore; non valgo, non merito; è colpa mia, merito di vivere solo se…
— decisioni: cercare amore e accettazione ad ogni costo, compiacere gli altri, non dire mai di no, rinunciare ad autoaffermarsi, non essere se stesso, non sentire, riconoscere, esprimere i propri bisogni, desideri, emozioni; farsi del male, punirsi, punire gli altri in modo indiretto, uccidersi se le cose si mettono troppo male (uscita di sicurezza).
13. Altri punti di riflessione
Separazioni.
Per il depresso ogni separazione o scontro è vissuto come definitivo, perché lo fa riaccedere alla ferita originaria: di qui la compiacenza, l’impossibilità di autoaffermarsi, la mancanza di assertività.
Passività.
Il depresso si caratterizza per la passività (nella forma di iperadattamento), per la rinuncia, la mancanza di iniziativa (ritiro dell’eros). Di conseguenza egli spesso sceglie ruoli gregari, ruoli da spettatore. Talvolta sviluppa una vera e propria fobia del successo (angoscia d’ esame, cedere al momento decisivo, fallire quando ormai il risultato è a portata di mano).
Io fragile.
Il depresso ha un io fragile, non capace di affermare la propria libertà e di assumersi la propria responsabilità.
Abituato ad appoggiarsi (bisogno di stampelle), rinvia ad un eventuale indefinibile futuro la propria realizzazione. Spesso ha la sensazione che la sua vita sia ancora tutta da giocare. Ha grande familiarità con l’esperienza del dolore.
Depressione coperta.
Talvolta la depressione è coperta da una facciata di giovialità. Allora il depresso è coscienzioso, allegro, attivo, bonario. Non sa dire di no, si presta oltre il dovuto. E’ impegnato, disponibile, responsabile, partecipe: costituisce la colonna portante delle organizzazioni. Si rende indispensabile: tutto ciò mira ad ottenere riconoscenza e stima. C’è un grande sviluppo della capacità di dare, stimolata da un insaziabile bisogno di ricevere per colmare una carenza antica.
Senso di vuoto, bisogno di riempirsi.
Spesso il depresso è una persona che mangia anche quando non ha fame, telefona quando non ha nulla da dire, attacca bottoni, socializza immediatamente con chiunque. Ha un continuo bisogno di attaccamento affettuoso: incapace di star da solo, ha bisogno di amici, preferisce le attività collettive a quelle individuali, si circonda di persone, ha sempre bisogno di una relazione sentimentale in corso, è ospitale e abile a mettere la gente a proprio agio, nutre gli altri letteralmente o offrendo sostegno, comprensione, allegria.
Ma è un’allegria superficiale, che può celare un’aggressività enorme e distruttiva.
Dipendenza.
Tormentato dalla paura della solitudine, ha bisogno di io ausiliari esterni, cui appoggiarsi. Sovente idealizza l’altro, da cui viene a dipendere per la propria esistenza. Assume due tipi di maschere:
— o la dipendenza diretta: chiede consigli, ha continuamente bisogno di rassicurazioni. Veste i panni dell’umiltà, modestia, incapacità, sventura o vittimismo (“io ho bisogno”). Questo è più tipico della struttura orale, come vedremo;
— o la dipendenza coperta: si rende indispensabile a chi lo circonda: è il più efficiente nel lavoro, il più disponibile fra gli amici, il più burlone in compagnia (“io sono buono, generoso”).
In terapia.
Se va in terapia, egli porta:
1. bisogno di dipendenza (di amore, di affetto)
2. aggressività
3. colpa
4. disperazione
5. mancanza di energia.
Ecco alcuni compiti del terapeuta:
— confrontare il vittimismo. Il depresso fa la vittima, mostra disperazione e sfiducia. Accusa il terapeuta di aver cura di lui solo perché è pagato; nega l’autenticità del terapeuta.
Questo va visto come equivalente aggressivo e come tentativo di manipolazione del terapeuta per ottenere carezze, mantenendosi passivo;
— confrontare la compiacenza. Spesso il depresso appare disponibile, non sa dire di no alle richieste del terapeuta, si sente in dovere, non si permette di essere spontaneo, quindi continua ad accumulare rabbia. E’ compito del terapeuta svelare questa dinamica e aiutarlo ad elaborarla. Occorre evidenziare la costrizione che egli prova nel mostrarsi capace di soddisfare le richieste dell’altro;
— lavorare sul senso originario di abbandono, e quindi sull’assenza di speranze e ambizioni. Naturalmente il terapeuta non può sollecitare direttamente il cliente a coltivare speranze (questo è ciò che fanno le persone comuni, ma non è terapeutico). In tal modo, infatti, il cliente rimarrebbe comunque passivo, coltivando desideri assolutizzanti e totalizzanti, cui poi risegue puntualmente la frustrazione. Il terapeuta deve nutrire speranze e ottimismo “in vece”, al posto del cliente, come io ausiliario. Via via che l’idea di essere sfortunato viene metabolizzata, saranno le risorse autonome della persona ad attivare la speranza. In sintesi: va bene l’atteggiamento di terapeuta fiducioso, non va bene la richiesta alla persona di essere fiduciosa.
Precauzioni per il terapeuta:
— attenzione a non fare richieste troppo difficili al cliente. Questo può generare un ulteriore carico di frustrazioni, che alimenterebbero la sua rabbia, da una parte, e il suo senso di colpa e di impotenza, dall’altra;
— attenzione a contenere i tentativi di manipolazione, come ad esempio i tentativi di intrusione nella vita privata del terapeuta, la ricerca di un rapporto sempre più intimo e appagante, la ricerca del permesso di potersi sfogare, mantenendosi totalmente passivo;
— attenzione a non interpretare i tentativi di autoaffermazione del cliente come forme di resistenza. Ad esempio, mancare un appuntamento, arrivare in ritardo, negare una presa di coscienza, nel depresso possono essere modi per uscire dal copione della compiacenza;
— dal punto di vista bioenergetico, la prima cosa da fare è aiutarlo a crearsi la propria energia. Secondo Lowen, “il sistema più immediato per raggiungere questo scopo è quello di far aumentare l’assunzione di ossigeno – farlo cioè respirare più a fondo e con maggiore pienezza. Ci sono molti modi per aiutare una persona a mobilitare la respirazione, molte tecniche bioenergetiche. Parto dal presupposto che il paziente non possa farlo da sé, altrimenti non avrebbe cercato il mio aiuto. Questo significa che per farlo partire, devo usare la mia energia. Lo guido a svolgere alcune semplici attività che pian piano lo portano a respirare più a fondo e, per stimolarlo, uso la pressione e il contatto fisico. Il dato importante è che man mano che la respirazione diventa più attiva, il livello di energia aumenta. Quando un individuo è carico alle gambe, può comparire una vibrazione o un tremore leggero e involontario. E’ il segno che nel corpo, e più precisamente nella parte inferiore, c’è una qualche corrente di eccitazione. Può accadere che la voce diventi più sonora, perché attraverso la laringe passa più aria; a volte il viso diventa più luminoso. A volte, perché si verifichi questo cambiamento e il paziente si senta “più su”, bastano venti o trenta minuti. Di fatto è stato temporaneamente tirato fuori dallo stato depressivo”.
Fantasie suicidiarie.
Il depresso non ha ricevuto il pieno permesso di vivere. Il comportamento non verbale della madre, rifiutante, freddo, o abbandonico, può aver veicolato l’ingiunzione più tremenda di tutte: non esistere. Secondo i Goulding, nel copione dei depressi spesso sono rintracciabili decisioni del tipo:
— se le cose andranno troppo male, mi ucciderò
— se tu non cambi, mi ucciderò
— mi ucciderò, e allora ti dispiacerà
— mi ucciderò, e allora mi vorrai bene
— per poco non morirò (o diventerò sempre più triste, malato, incapace, pazzo), e allora ti dispiacerà (così ti punirò)
— per poco non morirò (o diventerò sempre più triste, malato, incapace, pazzo), così mi vorrai bene
— farò in modo che tu mi uccida
— te lo farò vedere (quanto sono bravo, quanto ho ragione), dovessi morire (persone che si ammazzano di lavoro, nello sport ecc. per dimostrare, ai genitori, quanto valgono)
— me la pagherai, dovessi morire (persone che bevono, fumano, mangiano, si drogano per far dispetto a tutti i genitori del mondo)
In terapia, quindi, il primo passo è il contratto di non suicidio, altrimenti se rimane aperta, anche solo a livello di fantasia, questa via di fuga, il depresso non metterà mai tutta l’energia necessaria per attraversare la ferita e cambiare. Per i depressi sono indispensabili pertanto due passi:
— 1. ridecidere di vivere
— 2. decidere che valgono, che sono importanti, che sono OK, indipendentemente da ciò che fanno.
Senso di solitudine.
Il senso di solitudine è uno dei sintomi primari della depressione. Il depresso si sente solo e svuotato perché gli difetta l’energia vitale. Si attacca agli altri, come ad una presa di corrente, ma non riesce mai a trattenere l’energia ricevuta, perché è come un serbatoio bucato. Vampirizza l’altro, che alla fine lo respinge e lo allontana, e il depresso allora, sentendosi abbandonato, ripiega altrove (droga, alcol, cibo). Dal momento che il centro di energia è dentro il nostro io profondo, noi possiamo contattarlo realmente solo nella solitudine, attraverso un sano momento di introversione, cosa che il depresso rifugge con tutte le forze. Quindi egli continua ad essere eterodipendente, e a non costruirsi il suo generatore interno di energia.

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Vissuto del tempo astorico.
Caratteristica del depresso in crisi è il vissuto del tempo astorico: “è sempre stato così”. In termini di PNL si tratta dell’uso di quantificatori universali riferiti al tempo (sempre, mai, tutte le volte). Per i fenomenologi: causa della depressione è la continua ripetizione, che impedisce l’evoluzione. Tipico tratto depressivo è l’arresto del divenire. Il tempo sociale è mantenuto (nel depresso profondo si perde anche quello), il tempo interiore è bloccato.
Inoltre, la memoria nel depresso è una funzione indebolita: egli tende a vedere solo negatività in ogni episodio del passato.
In termini di PNL troviamo: filtro negativo, quantificatori universali (sempre, mai), nominalizzazioni (immagini congelate), dialogo interno negativo, scarsa visualizzazione, con tipiche sottomodalità: immagini senza movimento, spesso in bianco e nero o poco colorate, poco luminose, in associato se negative, in dissociato se positive.
Similitudine con il tipo 4 dell’enneagramma.
Il tipo 4, in seguito alla carenza d’amore, sviluppa invidia. L’invidia è la più passionale delle passioni, che avrebbe quindi bisogno di essere manifestata. Ma essendo l’invidia un cattivo sentimento, ne deriva senso di colpa, vergogna e cattiva autoimmagine.
Il lamentarsi, tipico dell’invidioso, serve ad attirare l’attenzione, ma attira un tipo di attenzione che non colma certo l’antica ferita in quanto è un’attenzione negativa (gli altri gli portano attenzione, ma lo biasimano, glielo fanno pesare). Inoltre, comunque, l’amore ottenuto è in ogni caso invalidato perché chi dà amore al depresso perde valore ai suoi occhi.
Senso di colpa e fallimento.
Il senso di colpa è correlato al senso di indegnità (io non valgo, non merito; deve esserci qualcosa che non va in me, per cui gli altri hanno diritto a maltrattarmi) e, come abbiamo visto, svolge due funzioni:
1. bloccare la rabbia (se sono in colpa, non posso prendermela con gli altri, anche se non mi rispettano);
2. punire se stesso, scaricando la rabbia e l’aggressività su di sé.
Lo scopo è di evitare il rischio di abbandono: se non me la prendo mai, se compiaccio, gli altri non mi allontaneranno, mi accetteranno di più, mi vorranno bene. Lo scopo è quindi di mantenere legami e dipendenze, ed evitare la solitudine.
Quando la rabbia affiora, e mette in pericolo la politica della compiacenza, attivare il senso di colpa e indegnità è uno strumento efficace per bloccarla.
Per questo si può dire che i sensi di colpa sono equivalenti della rabbia: se una persona si sente in colpa con un’altra, si può star certi che ha della rabbia nascosta e accumulata contro quell’altra persona. Il senso di colpa impedisce di sentire ed esprimere la rabbia, mantenendo così un falso rapporto di cordialità (maschera).
Quando i sensi di colpa non sono sufficienti, la rabbia può essere scaricata con l’autopunizione (autoaggressione), con i rituali ossessivi (difesa ossessiva al servizio della depressione), o con altre diverse forme di equivalenti aggressivi (vittimismo, punizioni indirette, fallimenti, manifestazioni paranoidi).
I fallimenti e gli insuccessi del depresso hanno quindi tripla valenza:
— propiziarsi gli altri, evitando di competere;
— punire i genitori, il partner o le persone che lo incoraggiano (fallimento come forma di vittimismo: “vedi che non riesco, come sono disgraziato!”). Per il depresso avere successo significa uscire dal copione, dichiarare di non avere più bisogno, di non dover più dipendere;
— punire se stesso, scaricando parte dell’aggressività del sé inferiore su di sé, e provandovi piacere (erotizzazione del dolore).
tratto da “Subpersonalità e crescita dell’io” di Mauro Scardovelli

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